La Sezione disciplinare del TFN della FIGC è stata chiamata a decidere su un deferimento riguardante un episodio di comportamento discriminatorio occorso durante lo svolgimento di una gara del campionato di calcio di Serie B.

In particolare, la violazione dei doveri di lealtà, probità e correttezza (artt. 4, comma 1, e 28, commi 1 e 2 CGS FIGC), si era sostanziata, a detta della Procura, nell’avere «utilizzato parole di contenuto discriminatorio e denigratorio per motivi di razza» nei confronti di un calciatore avversario.

La conseguente pronuncia del Tribunale offre spunti di riflessione sulle seguenti tematiche.

I. Le ipotesi in cui può dirsi competente il Tribunale federale a giudicare sulle condotte violative dell’art. 28 CGS FIGC allorché commesse nel corso di una partita ufficiale, così da escluderle dal perimetro della competenza esclusiva del Giudice sportivo.

Secondo la ricostruzione del Tribunale, il caso sottoposto al suo esame non può prescindere dalla valutazione della portata, da una parte, dell’art. 65, comma 1, lett. a) CGS FIGC – in cui si prevede che “i giudici sportivi giudicano, senza udienza e con immediatezza, in ordine: a) ai fatti, da chiunque commessi, avvenuti nel corso di tutti i campionati e delle competizioni organizzate dalle Leghe e dal Settore per l’attività giovanile e scolastica, sulla base delle risultanze dei documenti ufficiali e dei mezzi di prova di cui agli artt. 61 e 62 o comunque su segnalazione del Procuratore federale”; e, dall’altra, dell’art. 61, comma 3 stesso codice, in cui si prevede che “per le gare della Lega di Serie A e della Lega di Serie B, limitatamente ai fatti di condotta violenta o gravemente antisportiva o concernenti l’uso di espressione blasfema non visti dall’arbitro o dal VAR, con la conseguenza che l’arbitro non ha potuto prendere decisioni al riguardo, il Procuratore federale fa pervenire al Giudice sportivo nazionale riservata segnalazione entro le ore 16:00 del giorno feriale successivo a quello della gara”.

In primo luogo, il Tribunale considera che, nella specie, è stato contestato al deferito di aver pronunciato all’indirizzo di un calciatore avversario di colore un’espressione razzista tale da integrare non soltanto la violazione dei doveri di lealtà, probità e correttezza di cui all’art. 4, comma 1 del codice di giustizia sportiva, ma anche l’illecito di cui al successivo art. 28, commi 1 e 2.

Tale ultima disposizione, rubricata “comportamenti discriminatori”, prevede, in particolare, che “costituisce comportamento discriminatorio ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporta offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine anche etnica, condizione personale o sociale ovvero configura propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori” (comma 1), soggiungendosi che “il calciatore che commette una violazione di cui al comma 1 è punito con la squalifica per almeno dieci giornate di gara o, nei casi più gravi, con una squalifica a tempo determinato e con la sanzione prevista dall’art. 9, comma 1, lettera g) nonché, per il settore professionistico, con l’ammenda da euro 10.000,00 ad euro 20.000,00” (comma 2).

Per quanto di interesse nella vicenda delibata dal TFN, i “comportamenti discriminatori” – delineati all’art. 28 con specifico riferimento, ai “motivi di razza” – nulla avevano, tuttavia, a che vedere con le fattispecie oggetto della dedotta violazione dell’art. 61, comma 3 CGS FIGC, riguardanti, cioè, i “fatti di condotta violenta” (all’opposto disciplinati dall’art. 38), i fatti di condotta “gravemente antisportiva” (disciplinati dall’art. 39, nonché dall’art. 61, comma 4) e, infine, i fatti di condotta “concernenti l’uso di espressione blasfema” (disciplinati dall’art. 37).

Dunque, la disposizione di cui all’art. 61, comma 3 esula completamente, a detta del Tribunale, dal punto di vista contenutistico e precettivo, dalla materia e dalla specifica fattispecie di illecito (“comportamenti discriminatori”) regolati all’art. 28, norma, quest’ultima, la cui violazione era stata, invece, espressamente contestata dalla Procura federale.

Ad ulteriore avallo di tale conclusione il Tribunale considera altresì che l’altra disposizione – vale a dire l’art. 65, comma 1, lett. a) CGS FIGC, presuppone che la contestazione dei fatti debba avvenire “sulla base delle risultanze dei documenti ufficiali e dei mezzi di prova di cui agli artt. 61 e 62 o comunque su segnalazione del Procuratore federale”.

Ma nella specie risultava, tuttavia, evidente:

1) l’inesistenza nei rapporti ufficiali di gara o del commissario di campo (art. 61 del codice di giustizia sportiva) di riferimenti al percepimento della frase discriminatoria;

2) l’inesistenza di riscontri relativi ai cc.dd. mezzi audiovisivi di cui all’art. 58 del codice di giustizia sportiva (riprese televisive; filmati di operatori ufficiali dell’evento), neppure scaturenti da fonti non ufficiali;

3) la mancanza, nella relazione del collaboratore della Procura federale, di evidenze sulla diretta percezione e/o conoscenza dell’accadimento contestato al deferito, né la raccolta, da quest’ultimo di elementi di oggettivo e qualificato accertamento («più semplicemente, è stata evidenziata l’attività di indagine condotta dal medesimo collaboratore, il quale si è recato nello spogliatoio degli arbitri durante l’intervallo della gara e, invero, ha verificato che non sarebbe esistito alcun audio in grado di provare che la frase contestata fosse stata pronunciata»).

II. La qualificazione giuridica della fattispecie di “comportamenti discriminatori” ex 28 CGS FIGC

Le risultanze probatorie, ritenute insufficienti dal Tribunale, hanno offerto a quest’ultimo l’occasione di analizzare l’art. 28 CGS FIGC.

Infatti, il Tribunale ha respinto il deferimento del calciatore affermando, anzitutto, l’importanza e la centralità dell’art. 28 del Codice di Giustizia Sportiva nel contrastare i fenomeni di razzismo e violenza negli stadi, ribandendo come tale articolo – di matrice penalistica per la sua idoneità a tutelare il bene giuridico della dignità umana –  comporterebbe una tutela sia di carattere preventivo (rinvenibile nella disposizione di cui al comma 6 art. 28 CGS che statuisce che prima dell’inizio della gara la società ospitante avverta il pubblico “delle sanzioni previste a carico della stessa società in conseguenza a comportamenti discriminatori posti in essere da parte dei sostenitori”, costituite dall’ammenda ai sensi dell’art. 8, comma 1 del codice di giustizia sportiva) che di carattere repressivo, poiché sanziona comportamenti che, in quanto discriminatori, determinano una compromissione della personalità dell’uomo come singolo e come soggetto di comunità.

Il Tribunale è poi passato all’esame nel dettaglio delle condotte di cui all’art. 28 Codice di Giustizia Sportiva, che consistono nell’ “offesa, denigrazione o insulto”.

Più in particolare:

  • Offesa

Quanto al primo elemento, l’offesa, il Tribunale ha rilevato che la condotta per essere punibile deve essere considerata in maniera oggettiva e non deve, quindi, dipendere dalla percezione soggettiva della persona offesa. Inoltre, non occorre che detta condotta sia intenzionale, essendo sufficiente ad integrare l’illecito che ci sia una condotta oggettivamente discriminatoria e, oltre al nesso causale, che si verifichi l’effetto discriminatorio, direttamente o indirettamente.

  • Denigrazione

Anche con riferimento al secondo elemento, la denigrazione, il Tribunale ha ritenuto che quest’ultimo deve essere esaminato in maniera oggettiva. Ciò significa condurre l’indagine parametrando la condotta non ad uno stato emotivo o un sentimento individuale, ma misurandola con il significato che ha della stessa l’opinione comune.

  • Insulto

Infine, l’ultimo elemento riguarda le modalità dell’espressione dell’azione discriminatoria e in tal caso avranno rilievo espressioni ingiuriose o il porre in essere atti di spregio volgare, come ad esempio il caso di “cori, grida e ogni altra manifestazione che siano, per dimensione e percezione reale del fenomeno, espressione di discriminazione”, come è possibile ricavare dalla formulazione espressa al comma 4 del citato articolo.

Ha concluso il Tribunale nel senso di ritenere imprescindibili, per integrare l’illecito di cui all’art. 28 CGS FIGC, oltre la esistenza di una condotta materiale qualificata e tipica (offesa, denigrazione o insulto), anche la oggettivizzazione di detta condotta, data da una percezione certa e diffusa dell’espressione discriminatoria.

Siffatti elementi, nel caso in esame (ove sono state riscontrate contraddizioni e dichiarazioni confusionarie), non sono stati ritenuti insussistenti dal Tribunale: «Alla luce di quanto rilevato, il Collegio è dell’avviso che non siano stati raggiunti sufficienti elementi probatori che rendano non solo manifesto, ma neppure verosimile, il comportamento discriminatorio sostanziato dalla frase razzista attribuita al calciatore […].

Né l’intrinseca gravità di una frase razzista potrebbe giustificare la deroga al basilare principio di prova che governa anche l’odierno procedimento disciplinare. In totale difetto di prove oggettive e palesi, una diversa conclusione – da fondarsi a questo punto su elementi indiziari, ma che almeno debbano essere chiari, precisi e concordanti – avrebbe presupposto, come minimo, la linearità, coerenza ed esaustività delle dichiarazioni raccolte dalla Procura.

Ma la giurisprudenza ha chiaramente enucleato i principi che regolano la prova indiziaria, sottolineando “che il procedimento indiziario deve muovere da premesse certe, nel senso che devono corrispondere a circostanze fattuali non dubbie e, quindi, non consistere in mere ipotesi o congetture ovvero in giudizi di verosimiglianza (Sez. 4, n. 2967 del 25 gennaio 1993; Sez. 2, n. 43923 del 28 ottobre 2009)” (cfr. Corte di Cassazione, 17 giugno 2019, n. 26604).

Nella specie, la soglia minima non è stata raggiunta».

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